LA TRASFORMAZIONE NEL TEMPO: DA VILLA RUSTICA ROMANA A SEMINARIO
VILLA RUSTICA SULLA VIA CAECILIA
(insediamenti in Sabina nel II e I sec. a.C.) (De re rustica – Marcus Terentius Varro)
Età antica
La villa Rustica in età antica, in origine era sostanzialmente il nucleo di un’azienda agraria a conduzione familiare, dove veniva prodotto ciò che era necessario al sostentamento. Col passare degli anni e l’accrescersi della potenza di Roma, che a ogni conquista trasferiva in Italia centinaia di migliaia di schiavi da sfruttare nei più svariati lavori, le ville rustiche si fecero sempre più grandi e sontuose (200-250 ettari sembra comunque la misura media) e la produzione agricola diventò un’attività il cui scopo non era più semplicemente quello di sfamare il padrone, ma anche e soprattutto di vendere i prodotti in eccesso anche su mercati lontani.
La progressiva riduzione degli schiavi, dovuta al concludersi della fase espansionistica dell’Impero romano (II secolo d.C.), costrinse l’aristocrazia fondiaria a cedere una parte sempre più vasta della terra a coloni. Questi ultimi, a differenza degli schiavi, erano liberi, ma legati al latifondista secondo la forma della commendatio, ovvero in cambio della protezione garantita dal padrone avevano l’obbligo di prestare servizi (corvée) e pagare canoni. Nelle ville vigeva la responsabilità collettiva del pagamento delle tasse.
La costruzione della villa rustica sulle pendici del monte Letenano si può ricondurre all’esistenza della via Caecilia, che secondo alcuni storici fu costruita nel II sec. a.C.. Una strada romana che dal 35° miglio della via Salaria (bivio Monteleone Sabino) passava per Trebula Mutuesca (Monteleone Sabino), pendici del monte Letenano (San Salvatore maggiore), Cliternia (Capradosso), Amiterno (L’Aquila), Castrum novum (Giulianova) ed Hatria (Atri).
La fondazione della villa Rustica sul monte Letenano si può far risalire, quindi, al II – I secolo a.C. se si considerano le emergenze archeologiche ed architettoniche presenti proprio sotto al piano antistante la facciata dell’attuale chiesa di San Salvatore maggiore. L’esistenza di locali sotterranei con archi a tutto sesto (vedi foto sottostante n. 1) rivela una modalità costruttiva delle ville rustiche tipica dell’epoca repubblicana.
Infatti, nelle villae rusticae del II-I sec. a.C. è frequentissimo il cosi detto criptoportico. Si tratta, com’è noto, di uno spazio coperto tipico dell’architettura romana, sia pubblica che privata, che assumeva funzioni diverse a seconda degli edifici cui si accompagnava. Sull’uso dei criptoportici nelle ville di otium per passeggiate al fresco non sussistono forti dubbi, mentre più problematica è l’utilizzazione nei complessi rustici, ove costituiscono spesso il principale elemento cavo della piattaforma. Sono gallerie con volta a botte, in genere a due o tre bracci sui principali lati sostruiti.
Altri elementi archeologici esistenti e visibili all’interno del Complesso monumentale di San Salvatore maggiore, oltre ai numerosi criptoportici sopradescritti, connotano e testimoniano l’esistenza della villa Rustica sul monte Letenano: l’epigrafe di SESTO TADIO, proconsole della Cirenaica e di Creta; le colonne di granito ed altri reperti e simboli dell’età antica romana; le tracce di pavimento cosmatesco ed i dipinti su parete, a tema floreale.
ABBAZIA DI SAN SALVATORE MAGGIORE
Età medievale
(735 – 1399)
(1399 – 1629, abbazia commendataria)
Nel 735 (VIII sec.) i monaci percorrendo la via Caecilia, provenienti dall’Abbazia di Farfa, si insediarono sui resti della villa rustica e fondarono l’Abbazia di San Salvatore maggiore. Un’incisione del 1685, conservata presso la Biblioteca Nazionale dell’Abbazia di Farfa, consente di descrivere il monastero come edificio composto da tre ali su base quadrangolare: la torre campanaria e la chiesa con portico nella facciata, nel lato sud, ed in contiguità, un piano nel lato est ed due piani nel lato nord, con torrette poste al termine e tra questi due ultimi corpi di fabbrica. Era presente anche un muro di recinzione tra la torre a termine del lato nord e la chiesa.
L’Abbazia fu fondata in un periodo di grande fortuna per i monasteri nel regno longobardo. Abbazia imperiale, ampliò i suoi possessi, oltre che nel Reatino in Sabina, nelle Marche, in Abruzzo e nella stessa Roma. Nell’891 fu presa e incendiata dai saraceni. Ricostruita con qualche difficoltà nel secolo successivo, nella lotta per le investiture si schierò con gli imperatori contro i papi. Con il concordato di Worms del 1122 San Salvatore maggiore fu inglobata, anche se dopo forti resistenze, nel nascente Stato della Chiesa; la locale nobiltà rurale si oppose a vari tentativi d’introdurvi la riforma cistercense. Dagli inizi del Trecento iniziò la progressiva decadenza dell’abbazia, che subì profondi sconvolgimenti sociali, fu assaltata e in parte distrutta, perse irreparabilmente l’archivio abbaziale e fu gradualmente svuotata di possessi e potere. Diventa Abbazia commendataria unita a quella di Farfa nel 1399, quando Papa Bonifacio IX creò ed affidò questa Commenda al Cardinal Francesco Tomacelli suo nipote. Nel 1506 Papa Giulio II fece costruire la porta di legno della chiesa abbaziale il cui disegno è conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Nelle formelle della porta erano incisi i simboli ed i nomi dei Castelli governati da San Salvatore nel periodo dell’incastellamento e, nell’epoca del feudalesimo, quando divenne Abbazia baronale. Nel 1629 Papa Urbano VIII, a causa del peggioramento delle cose in San Salvatore, nei Priorati nelle Marche, e nella Chiesa Parrocchiale di Roma da esso dipendenti, chiamò a deliberazione i Cardinali e, col Breve apostolico del 12 settembre 1629, ripose in libertà ed in abito laicale i non professi e i novizi. Disciolse i professi, che furono ridotti alla condizione di semplici preti, ed assoggettati ai Vescovi Diocesani. Tale decisione venne confermata con la Bolla pontificia del 1 luglio 1632. Così finisce la presenza dei monaci in San Salvatore maggiore e nei monasteri da esso dipendenti. Una presenza, quella dei monaci, durata, se pur con una lunga interruzione nel periodo seguente all’invasione dei saraceni, per 894 anni.
SEMINARIO
delle Diocesi di Sabina, Poggio Mirteto e Rieti
Età moderna e contemporanea
(1629 – 1925)
Le risoluzioni papali che riguardarono la soppressione dell’Abbazia prevedevano che le risorse residuali fossero impiegate dal Commendatario per la fondazione di un Seminario per educarvi, in sostituzione dei monaci, quanti più chierici fosse possibile, principalmente tra i nativi dei castelli della Badia. Sgomberato il Monastero vi fu presto collocato un Vicario foraneo a presidio dei castelli abbaziali; ed al tempo del Sinodo Farfense del 1685 vi dimoravano anche dei chierici ai quali il Vicario leggeva la teologia morale ed esponeva la scrittura sacra, insieme ad un altro sacerdote che insegnava i rudimenti della grammatica. Il Commendatario cardinal Francesco Barberini volendo attuare quanto stabilito dal Concilio di Trento sulla erezione dei seminari, per la diocesi sabina prescelse Toffia, il più popoloso e notevole castello nei pressi dell’Abbazia di Farfa. E siccome in San Salvatore, con le risorse residue del soppresso monastero, non si era ancora aperto il seminario decretato da Papa Urbano VIII, il Commendatario Barberini unì al Seminario di Toffia la rendita e gli alunni della Badia di San Salvatore. In questo modo nacque il primo e solo Seminario per i chierici di ambedue le Badie. Il Cardinale Federico Marcello Lante, nominato Commendatario nell’anno 1746 dal Papa Benedetto XIV, decretò di trasferire il Seminario di Toffia nel soppresso Monastero di San Salvatore, ove erano raccolti alcuni chierici. Sul monte Letenano il sacro convitto stette per circa novant’anni, godendo di molta rinomanza per il concorso numeroso degli alunni, per la distinta dottrina degli insegnanti, per la protezione e le ricompense munifiche dei Cardinali Commendatari. Fu invece il Cardinal Lambruschini che, per il deperimento del Seminario, per la sua lontananza, per le strade aspre ed alpestri, per la solitudine ed inamenità del luogo, come egli diceva, con Pastorale del 15 dicembre 1836 annunciò la risoluzione di traferire il Seminario di San Salvatore in Poggio Mirteto. Papa Urbano VIII nel suo Breve apostolico di soppressione del 1629 aveva accennato che nel Monastero di San Salvatore potevano essere allocati altri religiosi di vita esemplare. Il Cardinal Lambruschini per non abbandonare alla rovina l’edificio e per sovvenire ai bisogni spirituali di San Salvatore, deciso a riportarvi una famiglia religiosa, il 5 novembre 1836 spinse i Padri Passionisti di San Paolo della Croce ad accettare una convenzione che prevedeva la cessione alla loro congregazione del Convento, della Chiesa, dell’orto, del molino e di alcuni fondi annessi. I Passionisti operarono il loro apostolato nei castelli limitrofi e nella non lontana Rieti, ove dal vescovo Curoli erano spesso chiamati a dare esercizi spirituali alle comunità religiose ed agli alunni del Seminario reatino, alcuni dei quali mandava spesso al Ritiro di San Salvatore per prepararli agli ordini sacri. Anche i Passionisti per la lontananza del luogo da altri Ritiri, per la scabrosità delle strade, per l’asprezza dell’inverno, per la povertà delle popolazioni e per il costoso mantenimento del vasto fabbricato, non potuto ridurre a forma di vero Ritiro, abbandonarono San Salvatore. Il 20 luglio 1854 restituirono ogni cosa al vescovo di Poggio Mirteto, Grispini, il quale ottenne dalla Congregazione dei Vescovi il titolo con cui i beni erano ceduti al Seminario di Poggio Mirteto per uso di villeggiatura autunnale degli alunni. Dal 17 agosto 1881, su concessione di Papa Leone XIII, anche il Seminario di Rieti mandava i propri alunni in villeggiatura presso San Salvatore. A seguito del riconfinamento tra le diocesi di Poggio Mirteto e di Rieti il 3 giugno 1925, con la costituzione apostolica di papa Pio XI “In altis Sabinae montibus”, i beni di San Salvatore maggiore furono scorporati dalla diocesi di Poggio Mirteto ed uniti alla diocesi di Rieti e fu attributo al vescovo di Rieti pro tempore il titolo di Abate del SS.mo Salvatore maggiore. Anche a seguito del terremoto del 1915, l’edificio negli anni venti del XX sec. era già gravemente danneggiato, ed il vescovo Rinaldi ed i vescovi reatini seguenti, nonostante vari tentativi di ripristinare l’interno complesso, non riuscirono ad arrestare il progressivo degrado che, già dagli inizi degli anni settanta del XX sec., portò il Seminario di San Salvatore maggiore a diventare un rudere.
Complesso monumentale di San Salvatore maggiore Edificio sul Monte Letenano – Comune di Concerviano (RI)
Il Complesso monumentale di San Salvatore maggiore, tra la fine del XX sec. e l’inizio del XXI sec., dopo alcuni decenni di abbandono, è stato ricostruito con un criterio scientifico che consente di leggere le tre stratificazioni edilizie che nel corso dei secoli sono state realizzate.
L’edificio è stato fondato come villa rustica, con, alla base della costruzione, criptoportici; un sistema costruttivo tipico del II e I sec. a. C..
La seconda stratificazione appartiene all’età medievale ed è stata realizzata per la funzionalità dell’Abbazia.
La terza stratificazione, quella che ha maggiormente trasformato l’edificio, iniziata nel XVII sec. viene completata la trasformazione dell’edificio come attualmente si presenta, ed è stata funzionale alle esigenze del Seminario delle Diocesi di Sabina, Poggio Mirteto e Rieti, ed è quella che ha portato l’edificio allo stato attuale.
Dopo la soppressione dell’Abbazia, e per le esigenze della nuova funzione dell’edificio come Seminario, furono eseguite opere edilizie che ampliarono l’edificio, secondo i criteri costruttivi ed architettonici rinascimentali. Fu modificato il prospetto della chiesa (scompare il portico riportato nell’incisione del 1685), furono sopraelevati di un piano i corpi di fabbrica est e nord, e fu costruito un nuovo corpo di fabbrica nel lato ovest.